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Viterbo – Caro direttore, ho letto attentamente il tuo articolo su possibili candidati sindaco, di livello politico più o meno decente.

La situazione a Viterbo è quella ahimè da te descritta dettagliatamente ed efficacemente. Aggiungo che la città da circa una trentina d’anni a questa parte si trascina con difficoltà e incapacità da parte di amministratori, che non hanno saputo costruire nulla o, che anzi, hanno lasciato che tutto procedesse con stanca inerzia fino ad arrivare a questa situazione, che è sotto gli occhi di tutti.

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Mi riferisco al mio specifico settore ovviamente: la Cultura; ma a volte mi viene in mente che anche in altri ambiti le amministrazioni che si sono succedute hanno dimostrato seria incapacità e soprattutto depresso disinteresse per Viterbo e per i suoi cittadini. Si potrebbe ormai dire che nella Tuscia vantiamo la “città che muore”, la tanto blasonata Civita di Bagnoregio, e Viterbo: “La città morta”, o comunque esanime. Gli stessi amministratori da trent’anni saltellano da una parte all’altra nella sala consiliare, dalla maggioranza all’opposizione e viceversa, e tutto rimane com’è.

Cambiano le strade (alcune anzi del tutto dimenticate), i sensi unici, aumentano le rotatorie, si moltiplicano (troppo) i centri commerciali in periferia, ma nulla veramente si modifica in una “prospettiva economica che non può non basarsi che su Cultura e Turismo”.

Si sono avvicendati tra le fila di chi dovrebbe occuparsi di Cultura, persone poco avvezze a tali argomenti, che si preoccupano di riempire cartelloni e farsi belle con foto di artisti più o meno noti in ambito nazionale.

Bene, ci mancherebbe altro. Ma la Cultura è un’altra cosa. Da professionista in questo settore, più specificamente in ambito teatrale, qualche domanda me la faccio. Ma le forze del territorio? Coloro che hanno speso tempo e forze per acquisire competenze ed esperienze in questo specifico settore? Perché fino ad oggi non si è mai pensato di iniziare un percorso di collaborazione tra le professionalità, che la città offre, e le istituzioni?

Mi viene da pensare che le motivazioni sono un po’ provinciali, nel senso più triste del termine: invitare un nome altisonante fa notizia e audience, è una “griffe”. È un’ottima cassa di risonanza per mettere in risalto il proprio nome o il proprio operato. Ma la Cultura (sempre maiuscolo) non ha nulla a che fare con questo. Il processo di organizzazione di un settore come quello culturale è lungo e attento. È, direi, un processo di (ri)educazione capillare di quelle persone che hanno perso il piacere per la Cultura, anche come tradizione.

Il problema di una tradizione sta dunque nel cercarla, non nel riceverla. Lo afferma un grande storico e critico del teatro contemporaneo: Fabrizio Cruciani (e lo sottolinea proprio in merito alle nuove forme di rappresentazione che iniziarono a vedersi in Italia negli anni ’70). La tradizione vive quando si sta cercando, all’interno della stessa comunità. E se io non conosco ciò che è stato già fatto finisco col cercare (o comprare) cose già trovate, o peggio ancora col ricommettere gli stessi errori che le esperienze precedenti avevano già fatto.

Fintanto che l’assessore incaricato svolge di fatto un lavoro di impresario o imprenditore della Cultura, perde la sua reale funzione. Non si occupa della Cosa Pubblica, svolge un lavoro che non gli compete.

Resto invece totalmente d’accordo con quanto più volte sottolineato – predicato – dall’amico Alfonso Antoniozzi: l’assessore deve saper coordinare e orchestrare le proposte, i progetti, le iniziative, le associazioni. Deve saper fare squadra, aprire sinergie, segnalare e dare indicazioni su bandi e concorsi. Deve raccogliere le esigenze del territorio e cercare di modularle in programmi e idee. L’assessore valuta, soppesa, ripensa, e poi semmai decide, ma senza pregiudizi né chiusure. L’assessore non deve partire necessariamente con la sua “idea di città” (locuzione tanto di moda negli ultimi anni), ma se la deve far venire una volta che ha preso le redini di una gestione condivisa, pubblica e plurale con le forze del territorio, con un intento affatto educativo di crescita e sviluppo, valorizzando ciò che si ha e facendone motivo di attrazione per turisti e per chi in città non conosce le proprie risorse.

Lo condivido da anni: la città deve essere illuminata dal suo interno, dalla sua stessa energia. Dev’essere una luce che attrae. Non dev’essere episodicamente rischiarata da qualche pallido “riflettore” esterno che arriva in città, firma autografi, incassa e se ne va. Così – come per altro si è già visto troppe volte – non resta nulla: qualche foto, qualche articolo di giornale, pochi manifesti, e basta.

I nomi di gran vaglia sono sicuramente importanti e di certo se ben impiegati possono essere assai funzionali a sensibilizzare il pubblico e più in generale i cittadini, ma non devono essere solo episodi. Devono far parte di un programma efficace, funzionali ad un progetto coerente a più voci: Culturale e Educativo.


Paolo Manganiello

Sono molto in linea con quanto presentato e condiviso in queste ore da Alfonso e da Chiara Frontini, durante la conferenza stampa a viale Raniero Capocci, di fronte ai cartelloni con su scritto “È ora”. Ho ascoltato attentamente le loro parole e l’entusiasmo e le idee chiare che ho ascoltato mi hanno dato sicurezza ed ammirazione circa quello che stanno preparando, lavorando con competenza e concretezza. Finalmente progetti sulla Cultura, senza chiacchiere al vento o utopie buttate là senza la minima cognizione.

Etruschi, Macchina di Santa Rosa, il centro storico, i papi, il Rinascimento e il Barocco, i set cinematografici, i teatri e i festival, l’enogastronomia: tutto questo, caro direttore, da te citato nell’articolo (Piattaforma Altolazio 2.0), mi sembra sorprendentemente affine a quanto esposto in pubblico, altrettanto chiaramente, da Antoniozzi.

E questa affinità mi sembra suggerire una sorta di “Unione d’amorosi sensi” per Viterbo e per ciò che offre, ma ancor di più per ciò che potenzialmente potrebbe regalare se gestita con altrettanto amore e competenza. Non basta amarla.

Bisogna saperla amare. Bisogna comprenderne tanto le potenzialità quanto i bisogni. Bisogna inizialmente accarezzarla con le giuste idee e con professionalità. Bisogna avere attenzione e rispetto per chi la vive e per chi la visita.

Per visitarla bastano poche ore. Ed è per questo dunque che dobbiamo imparare a raccontarla, e per farlo ci vogliono giorni, rappresentazioni, musei, iniziative ed eventi, finalizzati ad affascinare e trattenere l’ospite e a condividere l’importanza e la “bellezza” di una città che fino a ieri è stata dimenticata e male usata per scopi più funzionali ad una politica stantia e obsoleta.

Paolo Manganiello


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